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E’ certo un’operazione di notevole spessore culturale, quella di Grazia Napoli, che ha il merito di
fornirci la prima edizione moderna di Aurelia, libro di grande interesse,
non solo per gli studiosi di letteratura inglese, ma anche per chi voglia approfondire
la ricezione europea di modelli non soltanto letterari, ma anche ideologico-culturali,
elaborati da quella complessa fucina, che fu il Rinascimento italiano.
Aurelia, The Paragon of Pleasures 2and Princely Delights,
edito a Londra nel 1593, è l’opera di un singolare letterato del Cinquecento inglese,
George Whetstone, uomo di corte e, allo stesso tempo, uomo d’armi, viaggiatore instancabile
e “curioso” (particolarmente significativo risulta, in tal senso, il suo viaggio in Italia,
nel 1580, durante il quale egli tocca molti notevoli centri culturali della penisola,
tra cui Torino, Bologna, Roma, Napoli, Ravenna e Venezia). Un uomo di lettere, dunque,
che sembra aderire, nella sua stessa vicenda esistenziale, all’immagine delineata da
Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano, modello, com’è noto, destinato ad avere
straordinaria fortuna europea.
L’analisi puntigliosamente condotta da Grazia Napoli mette, appunto, in evidenza,
con una ricca e circostanziata serie di rimandi intertestuali, i rapporti presenti tra Aurelia,
opera che “narra la vita attraverso la novella” e l’archetipo per eccellenza della narrativa
cinquecentesca, il Decameron, che notevole fortuna riscuoteva, grazie anche alla
mediazione attuata da Chaucer, in Inghilterra, e da alcuni importanti autori di novelle del
Cinquecento italiano, come Bandello e Giraldi Cinthio, la cui opera era particolarmente amata
(e, dunque, imitata e ripresa) dalla cultura elisabettiana.
Aurelia
è, dunque, sostanzialmente, una raccolta di novelle entro una cornice costituita da giochi,
indovinelli, danze, discorsi e masques . La narrazione avviene all’interno di uno
sfarzoso palazzo circondato da un bosco incantato, perfetta rappresentazione di una corte e,
al contempo, dei complessi rituali della vita cortigiana. L’autore/narratore, sotto la maschera
di Cavaliero Ismarito, giungerà nel palazzo in un giorno altamente simbolico:
la Vigilia
di Natale. Da allora ci saranno sette giornate di “exercise and pleasures”, in cui sarà
il confronto tra opinioni differenti, la conversazione, la parola, nella sua funzione
più umanisticamente pregnante, a giocare un ruolo di primo piano. Giudici delle controversie
saranno, in piena adesione a quei modelli ideali di perfetto cortigiano e di perfetta
“donna di palazzo” delineati da Castiglione, Isabella “a well spoken Gentlewoman”
e Fabritio “an elderly Coutier. Gli altri interlocutori, simbolicamente fissati in una
ostentata fissità tipologica e psicologica, assumeranno il valore di “maschere”,
altrettanto significative dal punto di vista ideale. In questa prospettiva,
le novelle, al di là della loro valenza propriamente narrativa, si caricheranno di
un significato eminentemente didattico, a conferma di come il senso di un’universale
paideia sia alla base, nel complesso gioco tra finzione e realtà, tra ammestramento
e gioco, dell’ideale rinascimentale della civil convesation.
In Aurelia, pertanto, le novelle saranno raccontate per esporre, sostanzialmente,
in maniera icasticamente pregnante, il tema della giornata, nella duplice finzione della
struttura narrativa, ancora una volta in un ambiguo gioco di specchi tra “cornice” e
narrazione.
Un’opera, dunque, Aurelia, che sembra sfuggire ad una troppo netta classificazione
per generi letterari, ma che sembra, a diversi livelli, esaltare il valore, ineludibile
e fondante, che la “conversazione” assume nell’universo cortigiano, quale supremo momento
di aggregazione e di scambio, quale complesso rituale in cui si manifestano rapporti
e gerarchie, fluidi e problematici da un canto, ma, al contempo, fortemente cristallizzat
i da un punto di vista sociale, ma anche da un punto di vista simbolico ed ideale.
Una conferma ulteriore della fortuna “europea” di determinate opere letterarie italiane,
ma anche della peculiarità di tale ricezione, evidente, soprattutto nell’immagine della
corte delineata, nel libro, segno di come, appunto, la cultura elisabettiana guardasse
al modello italiano, ambiguamente al bivio tra volontà di imitazione e di ideale vagheggiamento.
E, in quest’ottica, il recupero attuato da Grazia Napoli acquista un valore tutt’altro che
secondario, perché offre agli studiosi, ma anche ai lettori curiosi, una tessera di quell’universo
variegato e complesso, che fu il Rinascimento nella sua dimensione europea.
Maria Aurelia Mastronardi
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