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la paura che non va via
di Grazia Napoli
Sono tra i pochi fortunati lucani che non hanno sentito nulla quella sera del 23 novembre 1980. L’ unico segnale che qualcosa stesse succedendo: la difficoltà a controllare l’auto in un curvone, che pure conoscevo bene. Sentivo come una forza centrifuga, che mi impediva di sterzare. Ma è stato un attimo poi il viaggio è ripreso senza intoppi. Una ventina di minuti dopo: l’arrivo a Potenza. Una folla scendeva verso la periferia. A piedi, in macchina, alcuni portavano sedie e coperte. Gente disperata, disorientata, spaventata, incredula. Guardavano la nostra auto salire verso la città e ci urlavano di non farlo. Ma perché? Che succedeva?
Sotto casa, i vicini, le prime spiegazioni, la paura che cominciava a farsi strada. “Non salite a casa”, ci dicevano. Il palazzo all’esterno era intatto. Ma dentro? Due militari, forse siciliani, ci chiesero di poter ascoltare la radio. Già, la radio in macchina! Non l’avevo accesa. Avevo continuato ad ascoltare un nastro di Claudio Baglioni e non avevo sentito, da quelli che anni dopo sarebbero diventati i miei colleghi, che la mia terra aveva tremato violentemente per 90 lunghi secondi, in senso ondulatorio e sussultorio, ed io non me ne ero accorta!
Una scossache aveva provocato 8 morti solo a Potenza. Che aveva reso la città un luogo silenzioso, irreale, dominato dalla paura e dall’angoscia. Una scossa che avrebbe cambiato la mia città e la mia gente per sempre. Ci rimettemmo in macchina e rifacemmo i 60 chilometri già fatti. Indietro verso Corleto, dove temevamo potesse essere successo il peggio. Mi fermai a cercare un telefono. Niente. Non funzionava niente. Guidavo come in trance, mi sembrava di volare….
Ci misi pochissimo. Già all’ingresso del paese, anche qui: il silenzio. Un silenzio fatto di incredulità, di dolore, di paura, di rassegnazione. Niente morti, né danni evidenti. Mi unii a quel silenzio, a quell’angoscia, a quella paura che non era stata la mia, ma che avevo vissuto negli occhi e nei racconti degli altri.
Non avevo sentito quella terribile devastante prima scossa. Ma, nel tempo, sentii tutte le altre. Per anni. A scuola, quando scendevamo piano per le scale in fila indiana, tenendoci per mano; a casa, specie di notte, quando mi svegliava lo sfrigolio dei mattoni e il dondolio eccessivo del letto; per strada, quando i palazzi sembravano unirsi e toccarsi sulle nostre teste; persino al lavoro, ben 10 anni dopo, quel 5 maggio del ‘90, quando per scappare dalla redazione, ne ruzzolai tutte le scale.
Col tempo mi è sembrato di poterci convivere, mi sono rassegnata, ma mai abituata. Non ho esorcizzato la paura. E’ rimasta in me, anche quella che non ho vissuto. Viene fuori, ogni tanto. La paura non passa.
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