Il mio libro: recensione di Silvia Bigliazzi

Silvia Bigliazzi, professore ordinario di Letteratura Inglese presso l’Università degli Studi della Basilicata, nel corso della presentazione di “Aurelia di George Whetsone”.

Potenza, sala della Banca di Roma - 23 ottobre 2002.

Raccolta di novelle della fine del Cinquecento, Aurelia di Whetstone offre uno spaccato della cultura italiana come percepita dallo sguardo edulcorato del cortigiano e uomo di lettere inglese, che di quella cultura vuole fare il modello per il proprio regno. In un’età, come quella elisabettiana, in cui si assiste a una straordinaria fioritura drammaturgica che inscena le fratture di un’epistemologia in crisi, la narrativa di Whetstone si pone come uno specchio ideale e idealizzante: lì le ansie epistemologiche si ricompongono nell’ordine tutto umanistico del cavaliere Ismarito, uno Wandering Knight che alla corte di Madonna Aurelia, dove giunge dopo essersi simbolicamente perduto in una foresta, trascorre sette giorni di “excercise and pleasure” in compagnia di un gruppo scelto di dame e signori. Con questi egli si intrattiene in discussioni perlopiù incentrate sul tema dell’amore e del matrimonio, e nel racconto, a turno, di novelle che fungono da exempla morali, così risolvendo, all’interno di un microcosmo costruito intorno alla figura del ‘cortigiano temperato’, le tensioni ideologiche di un’intera epoca.

Aurelia, come osserva Grazia Napoli, è la “perfetta padrona di casa e regina delle feste, donna virtuosa, intelligente nei ragionamenti, pudica in giusta misura nei discorsi d’amore, perfetta ballerina, intenditrice d’arte, accanita nella difesa del suo sesso”. Paragone, dunque, di ogni donna, Aurelia assomma in sé tutte le virtù della dama umanistica e, per quella logica delle corrispondenze tanto cara agli elisabettiani, è, in piccolo, figura della stessa regina: principio di ordine di un cosmo simbolico al fondo ferito. Novella, allegoria, masque, musica, poesia, commedia dell’arte si rincorrono e si intrecciano nell’opera di Whetstone, dandole l’aspetto di un perfetto compendio della tradizione letteraria che il cortigiano deve conoscere. Altri avrebbero portato sul palcoscenico l’angoscia di un tragico tutto moderno, dando voce al dubbio essenziale dell’essere o non essere. Whetstone fa tutt’altro, quasi a controbilanciare la portata destrutturante del teatro coevo, che, nel rappresentare l’instabilità tragica dell’eroe, non fa che riflettere le incrinature tipiche di un’età di transizione, in bilico tra passato e futuro. Ed è così che Whetstone ne mostra invece una facies rassicurante, in cui equilibrio e spettacolarità si combinano, celebrando lo splendore della regina vergine e riportando sulla retta via l’Ismarito cavaliere: anacronistica e nostalgica icona di una realtà cortigiana ormai genuinamente vitale solo in una raccolta di novelle.