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Aspettando Godot
di Grazia Napoli



«E adesso che facciamo?»
Non lo so
Andiamocene
Non si puo’
Perché?
Aspettiamo Godot
Già, è vero!



L’attesa infinita, apparentemente ingiustificata, assurda e inutile di un certo Godot. Chi sia, da dove dovrebbe arrivare e perché e, soprattutto, “quando” e “dove”, perché sia tanto atteso, nella quasi immobilità dei movimenti e della parola, non è dato sapere.


C.D. Friederich, Due uomini davanti alla luna - 1825-30 - Metropolitan Museum of Art New York


“Aspettando Godot” è una delle più celebri opere del Novecento, di Samuel Becket e del suo Teatro dell’Assurdo. È un’opera che più che dire, spiegare e parlare, sottende i significati e invoglia al silenzio. È teatro senza scena, senza movimento, senza racconto, senza un finale. Eppure coinvolge lo spettatore, nell’ attesa che qualcosa succeda. Invece nulla succede e il secondo atto è la copia esatta del primo. Lo spettatore al temine della rappresentazione continua ad attendere, non sa chi, non sa cosa, non sa perché. Eppure intuisce e sente che cosi dev’ essere, pur nella sua apparente assurdità.

La prima volta che vidi a teatro la scena di due uomini sotto un albero, fermi, in attesa di un certo Godot, scambiarsi poche inconcludenti parole, pensai che mi sarei annoiata a morte e che non avrei imparato nulla, né mi sarei divertita. Non fu cosi. Lo scenario immobile, rotto solo dalla crescita e dalla caduta di qualche foglia e dall’ irrompere repentino di altri personaggi stranissimi, uno persino tenuto al guinzaglio, mi hanno inconsciamente – e neppure troppo – coinvolta e mi hanno insegnato l’attesa.

In Becket il tempo non c’è, ma in fondo è “scandito dall’ attesa”; lo spazio è limitato, ma allo stesso tempo “occupato”, anche da elementi che arrivano dall'esterno e subito vanno via; la trama scompare, eppure si snoda nella sua immobilità e mancanza di argomenti; l’Autore c’è, ma diventa puro “io narrante”; il protagonista – in questo caso Godot – di fatto non c’è, non si vede, ma è una presenza-assenza costante. Tutto è immobile, eppure tutto pare muoversi in una dimensione indefinita; non surreale, piuttosto oltre il reale.

“Words are drops of silence in silence” – Le parole sono gocce di silenzio nel silenzio, afferma Becket. Eppure esistono. E lo stesso “tempo” finisce per esistere se – in fondo - definisce l’attesa di qualcuno o qualcosa, in una dimensione di cultura della rovina successiva alla cultura della crisi.

Aspettando Godot – fu scritta in francese tra il 1948 e il 1949, ma la prima messa in scena, a Parigi risale al 1953. Un’opera difficile, che non incontrava i favori degli impresari, ma che incontrò subito quello degli intellettuali e, soprattutto, del pubblico.

Vladimiro ed Estragone, gli uomini sotto l’albero, sono vestiti come vagabondi, aspettano Godot, che non conoscono, ma che ha dato loro appuntamento. Non sanno né dove, né a che ora. Aspettano perché hanno – in fondo – una speranza, quella di essere accolti, rifocillati, amati. Pozzo e Lucky, un proprietario terriero e il suo servitore tenuto al guinzaglio passano, parlano brevemente, vanno via. Una comunicazione laconica e incomprensibile. Un messaggero dirà loro, per ben due volte, che Godot “per oggi non arriverà”. Vladimiro ed Estragone pensano di suicidarsi, poi desistono e continuano ad attendere. Ciclicità ed immobilità, dettata e scandita dall’ attesa.

Che Godot sia Dio? Becket non lo ha mai chiarito.

God in inglese è Dio, in Irlanda, la terra di Becket, familiarmente chiamato Godo. Alcuni critici hanno pensato anche alla possibile crasi tra le parole God e Charlot. In fondo i personaggi sono dei clown; altri ancora, semplicemente, alla ripresa di un cognome molto diffuso in Francia. Se per il romanzo “Malone Dies”, la M di Man (Uomo o anche Umanità) e il suffisso “alone” (solo) possono essere interpretati come “Uomo Solo” e dunque “l’Uomo solo muore”, per Godot il mistero resta. Lo stesso Becket avrebbe detto: “se avessi saputo chi è Godot l’avrei scritto nel copione“.

Il fascino di questa autentica opera sull’ attesa e sull’ assurdità della vita dell’Uomo forse sta proprio in questo: nel mistero che consente ad ognuno di potersi compenetrare nella condizione di attesa di qualcosa o Qualcuno. Superando una visione nichilista, potrebbe esserci una connotazione anche di Speranza, non per forza di Fine imminente e assoluta.

La speranza che - nonostante tutto - accompagna lo spettatore fuori dal teatro, nella vita reale, pur sapendo di aver lasciato quei due sul palco, in attesa… Due che, in fondo, sono solo un Simbolo. Se si vuole, anche poetico.


- Questo articolo è stato pubblicato sul n. 101 della rivista culturale online www.goccedautore.it diretta da Eva Bonitaibus

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