Maratea, Bogotà
di Grazia Napoli
E’ una città bellissima Bogotà. Su un altipiano che supera i mille metri e dove - di sera - fa molto freddo. Le case si arrampicano sulla roccia. Sembrano tutte uguali, dai colori sgargianti, le tipiche case sudamericane. Gli stranieri alloggiano in un quartiere vicino al centro, che somiglia ai quartieri latini delle capitali europee: strade lastricate, tanti ristoranti e hotel a cinque stelle, centri commerciali e negozi eleganti, accanto a pittoreschi mercati. Tutto sembra tranquillo, allegro, colorato. Eppure, ad ogni angolo delle strade di Bogotà si annida il pericolo. Anche nell’elegante quartiere degli stranieri. Capita spesso – ci raccontano – che qualcuno lanci una bomba a mano contro uno di questi alberghi: in segno di protesta e di sfida. Eppure sembra tutto tranquillo. E’ una calma apparente. “Fate attenzione, guardatevi sempre intorno. Qui non si è mai davvero tranquilli”. Cesare Iannini, vice presidente dell’Associazione dei Lucani a Bogotà, è un signore distinto, imponente, sulla sessantina, con una bella barba brizzolata. Parla un italiano faticoso. Cerca le parole, come se le assaporasse. Vive in una bella villa in centro, ama le auto d’epoca, che restaura e conserva come gioielli nel garage della sua villa al centro di Bogotà, dove vive con la moglie spagnola: donna distinta, elegante quasi d’altri tempi. I figli ormai grandi studiano fuori, hanno tutti un passaporto europeo. Uno di loro lo aiuta nella sua attività imprenditoriale.
Cesare si illumina quando parla dell’Italia. Ci torna appena può, per vacanza o per lavoro. In Italia, a Maratea, ha fatto anche il viaggio di nozze. Di quando era bambino, di Maratea, ricorda ancora i pacchi spediti dall’Italia. Grosse scatole di latta con dentro i dolci di mandorle. E’ lui a fare da guida alla nostra troupe in giro per la città a bordo del suo fuoristrada. E raccomanda attenzione e prudenza. Guida piano. Ci mostra il centro, ma anche le lunghe strade che lo costeggiano. Vialoni pieni di grattacieli e parchi immensi, e ci racconta della Colombia devastata dalla povertà e dal narcotraffico. Racconta e ci mostra i contrasti. La vita dei poveri, che vivono di espedienti, per le strade. Ai semafori vendono di tutto, mentre bambini dalla pelle color nocciola si esibiscono come fenomeni da baraccone: capriole, evoluzioni, giochi pericolosi: ci sono persino dei piccoli sputafuoco. Lo fanno continuamente, in mezzo al traffico per guadagnare le mance degli automobilisti. Ma non sono artisti di strada, sono solo bambini. E’ uno spettacolo dal significato terribile, dai retroscena inaccettabili, per un’infanzia deliberatamente trascurata, sfruttata e vilipesa. Bambini sporchi, malvestiti e malnutriti utilizzati come in un grande circo. E più in là: le ville lussuose, abbarbicate sulla roccia dell’altopiano: non sono ville di nobili signori, ma dei signori del narcotraffico, spesso venuti dal nulla. Sono ville fatte con i soldi della droga.
E’ intenso e strano il traffico di Bogotà. Pochissime macchine e tanti pullman, coloratissimi e con un lunghissimo tubo di scarico, che va verso l’alto, come quello delle vecchie stufe. Ogni autobus ha un colore e dei disegni. “E’ per gli analfabeti, che sono ancora tanti – spiega Cesare Iannini – dal colore capiscono quello che devono prendere”.
C’è meno traffico in centro. Qualche taxi. Ma non sono tutti uguali, segno che tanti sono gli abusivi. E’ piccolissimo il centro di Bogotà. E’ tutto racchiuso in una piazza: il duomo, la residenza del vescovo, quella del sindaco e il palazzo del governo. Il potere colombiano si concentra in pochi metri. Gli angoli delle strade sono piantonate dalle guardie colombiane: giovanissimi di chiara discendenza india. Sembrano far parte del paesaggio. Dalla sua jeep Cesare Iannini mostra tutto questo; poi si ferma all’angolo della piazza. Scende dall’auto ed entra in un negozio di articoli religiosi: tante statue tra cui quella di san Biagio protettore di Maratea. Parlotta con la commessa poi esce. Si capisce che non ha trovato chi cercava. “Questo negozio – spiega – è appartenuto per anni alla famiglia Iannini, italiani di Maratea. Oggi si chiama “El Vaticano”. I vecchi proprietari sono morti e non hanno lasciato eredi”. Cerca per noi tracce di lucanità nelle strade della capitale colombiana. Poi ci guida nelle strade eleganti del centro, poco lontano dal teatro nazionale, fino ad una piazza affollata di turisti e qui ci mostra, con orgoglio, due ristoranti, si chiamano ‘Sorrento’ e ‘Roma’: sono i suoi Ristoranti. Più in là, verso i grattacieli e i parchi, ce ne mostrerà un terzo: ‘Salerno’. Ma è nel più importante, nel primo nato, che deciderà di raccontarci la sua storia, la storia di un lucano, uno Iannini di seconda generazione, nato a Bogotà da padre marateota.
Iannini è - in Basilicata - un cognome che evoca immediatamente la costa tirrenica, con le sue rocce a strapiombo sul mare, vicinissimo al verde intenso della natura. E’ il paesaggio di Maratea, che rimane negli occhi e nel cuore anche di questi eredi di seconda e terza generazione dei marateoti trapiantati, all’inizio del ‘900, in Colombia. Arrivati in tanti a Bogotà, spesso dopo un lungo peregrinare dal Messico o dal Venezuela e dopo aver fatto mille mestieri.
Fu allora che un vero pioniere fece conoscere la pasta ai colombiani. Si chiamava Antonio Iannini Cernichiaro ed era arrivato a Bogotà dal Messico nel 1915, con la moglie messicana. Dieci anni dopo, aprì il ristorante più caro a Cesare “La Bodega Moderna”. E’ tutto documentato nello studio del figlio trentenne, che lo aiuta nella gestione: vecchie foto in bianco in nero del ristorante com’era: all’inizio, una specie di piccola salumeria. Ma anche ritagli di giornale con la foto di papà Antonio, primo produttore di pasta a Bogotà.
Oggi la “Bodega Moderna” è un moderno ristorante dalle ampie sale, con grandi vetrate ornate da piante tropicali, che fanno da contrappunto allo stile sobrio del legno scuro, delle sedie impagliate alla vecchia maniera e delle tovaglie ricamate. In un angolo: un Bar stile vecchia America, in cui si servono soprattutto succhi di frutta tropicale. Dall’esterno “La Bodega Moderna” sembra – invece - solo un’antica bottega del pane, con una vetrina dallo stile casereccio, in cui si trova ogni forma di pane, grissini e dolciumi in sporte di paglia. Sono Pasta, pane e dolci di ricetta lucana. Li distingue un marchio: un arcobaleno…e la scritta Maratea.
Si chiama proprio così la produzione di Cesare Iannini, nel laboratorio-retrobottega de “La Bodega Moderna”: 100 dipendenti e tanta pasta: orecchiette, ravioli, spaghetti, fusilli. La pasta lucana impacchettata e sottovuoto. Pronta per essere venduta, esportata e utilizzata per i clienti dei quattro ristoranti di Cesare Iannini. “La ricetta è quella lucana”, precisa. Il grano arriva dall’Argentina e dagli Stati Uniti, ma il sapore è buono. Il problema è come la si cucina. “Dobbiamo cucinare la pasta per il gusto dei colombiani”, dice. Se la si porta in tavola al dente chiedono di riportarla in cucina e lasciarla cuocere ancora un po’. Ma ciò non accade se in sala ci sono degli italiani. Allora la pasta Maratea può essere servita al dente. Come in Italia, come a Maratea!”.
“La Bodega Moderna” è il “tempio” di Maratea. Ne custodisce ricordi, oggetti, simboli. Nello studio privato di Cesare Iannini campeggiano poster, quadri, vecchi posacenere dell’Hotel Santa Venere, velieri dipinti in un improbabile mare marateota. E poi, una piccola biblioteca “firmata” Iannini. I libri degli zii di Cesare: poesie, memorie storiche e di guerra, brevi racconti. Anche un diario di viaggio di inizio ‘900 con tanto di mappa per raggiungere la Colombia da Maratea. Una famiglia di studiosi e di persone di lettere gli Iannini, che hanno lasciato il segno anche così. Libri grandi e piccoli, ben rilegati o in edizioni economiche, stampati da tipografie dai nomi ancora noti, in Basilicata. Cesare Iannini custodisce tutto questo con orgoglio, vicinissimo al laboratorio della pasta Maratea.
Ha sviluppato un’arte ben diversa da quella della pasta Leonor, la sorella minore di Cesare Iannini. E’ una scultrice molto affermata in Colombia. Scolpisce soprattutto busti di donna, lavorati nell’argilla e passati nel bronzo. Sono dei piccoli capolavori di espressività e sensualità, ma anche gruppi di busti di donne di diverse dimensioni che evocano la maternità, la fecondità, la famiglia.
Leonor non sembra la sorella di Cesare. E’ minuta, curata, con un caschetto castano sempre a posto. Lavora in un piccolo laboratorio adiacente alla sua casa, una villetta poco distante da quella del fratello. Tutto è pulito e ordinato, nonostante sia lo studio di un’artista. Indossa un cardigan chiaro; niente grembiuloni per proteggersi. Parla con molta dolcezza Leonor, ma conosce pochissime parole in italiano. Ride quando riesce a dire poco più di una frase. Lavora anche il vetro. Il suo maestro è stato un italiano. Di Maratea ricorda la bellezza dei luoghi e della gente. Anche per lei quei pacchi di biscotti di quand’era bambina sono il ricordo più ricorrente e prepotente. Ricorda il mare, il verde. L’immagine che ha di Maratea è, naturalmente, “artistica”. I vicoli stretti, le scale delle vecchie case ornate di fiori, le ringhiere lavorate da sapienti mani artigiane: lo scenario ideale per un’esposizione: dei suoi vetri colorati, dei suoi busti di donna. Nello studiolo di Bogotà, Maratea non sembra affatto lontana. Leonor ci offre anche un caffè, non italiano ma bevibile, sorride, ride più forte, si commuove. Non sa se e quando tornerà in Italia. Magari con il suo maestro. magari per una mostra. Poi torna al suo lavoro, seria e concentrata. Scalfisce e lavora l’argilla con una forza inusuale in un corpo così esile, eppure con la forza della sua arte permea la materia, la lavora, le dà forma. E già si intuisce come sarà questo nuovo busto di donna.
Chiusa la porta dello studio di Leonor, la città colorata, caotica e bellissima ci viene di nuovo incontro. Con tutto il suo fascino latino-americano, ma anche con quell’aria di mistero e di pericolo, che sembra attenderti, in agguato, ad ogni angolo.
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